Sono entrato in un girone dell’inferno. In terra, però. La prigione di Saydnaya, a 40 km da Damasco, Siria, è la peggiore aberrazione dell’uomo contro l’uomo. Il regime militare di Assad ci ha deportato decine di migliaia di persone e, secondo Amnesty International, sono più di 17.000 i morti dal 2011 a oggi. Sì, perché Saydnaya funziona tuttora a pieno regime. Nel 2016.
Nessuno può avvicinarsi a Saydnaya, ad eccezione di chi ci va per morire. E prima di morire, sputa sangue nei modi più orribili che una mente umana possa concepire. I prigionieri vengono malmenati e frustati sin dal loro arrivo. Le guardie chiamano questo rito iniziatico “Welcome party”, la festa di benvenuto. Le donne vengono stuprate, gli uomini umiliati e ridotti ad ammassi di carne e sangue.
Ma è solo l’inizio. Poi, i detenuti, vengono rinchiusi in minuscole celle, dove devono dormire su una piastrella a testa, oppure uno sopra l’altro. Hanno pochissimo da mangiare, e per giorni non hanno nulla. Ogni tanto viene loro tolta l’acqua corrente, così devono abbeverarsi con il ristagno del water.
Vige la regola del silenzio a Saydnaya. Non si può parlare, e si sta al buio. Così si affina l’udito. E i prigionieri riescono a capire quando sta per arrivare una ronda che li massacrerà di botte, ordinerà loro di spogliarsi e violentarsi l’un l’altro, oppure li prenderà e li porterà nella stanza delle torture.
Cavi elettrici sulla pelle, uomini inseriti in copertoni d’auto, unghie strappate, prigionieri appesi per i polsi e pestati fino allo svenimento. La tortura ha un suo odore. Chi ci è passato lo sa riconoscere. Vietato urlare a Saydnaya. Persino sotto tortura. Altrimenti ne arriva una quota aggiuntiva. I prigionieri devono “confessare”. Il loro dissenso, le loro opinioni, o di avere commesso quale piccolo atto contro il regime. Tutti confessano, ma non basta.
Un istruttore di karate è stato massacrato di botte perché è stato scoperto mentre insegnava la sua arte ai suoi compagni di cella. E con lui, sono stati uccisi tutti gli allievi. Gli altri prigionieri potevano vedere il sangue fluire da sotto la porta della gabbia del karateka. Altri sono morti di freddo, di fame, di sete, di paura.
Moltissimi non sono tornati. Qualcuno sì. I più forti, forse. I più fortunati. 65. Solo tramite le loro testimonianze si sono potuti ricostruire gli ambienti, le modalità e le violenze di Saydnaya. Forse il regime li ha lasciati andare perché raccontassero. E la paura si diffondesse.
C’è un solo documento che racconta della prigione di Saydnaya. Ed è quello pubblicato da Amnesty, di cui metto il link qui sotto. Quasi nessun media italiano se n’è occupato. Ma non si può non conoscere questa storia.